La “questione d’Oriente”

Curdistan, un passato che non muore

Pubblicato su Libertà di educazione, n.

In questi ultimi anni siamo stati spesso scossi dagli eventi, tragici, di guerre che riguardano l’area balcanica (la Croazia e la Bosnia prima, il Kossovo ora) e il vicino Oriente (in particolare il Curdistan). Questi eventi hanno una comune radice, la cosiddetta “questione d’Oriente”, che vogliamo qui sinteticamente tratteggiare, per accennare poi ad alcuni aspetti specifici, ossia la questione dei curdi e la questione armena, che costituiscono due spezzoni ancora irrisolti, e colpevolmente trascurati dai mezzi di informazione, della predetta “questione d’Oriente”.

Una definizione.

Con l’espressione “questione d’Oriente” si intende comunemente indicare il problema posto dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano, al cui interno erano più o meno forzatamente stati costretti a convivere popoli di etnia, cultura e religione diverse e contrastanti, dissoluzione che avvenne tra il Congresso di Vienna e la prima guerra mondiale.

Certamente l’Impero Ottomano non è il primo, né l’ultimo, Impero che la storia conosca. Ma rispetto ad altre realtà imperiali, comprensive cioè di diversi popoli, la sua peculiarità è stata appunto la duplice complicazione, se così possiamo dire, di riunire popoli a) di cultura anche opposta e b) dai confini non ben definiti. Chiariamo che cosa vogliamo dire. Di cultura opposta: l’Impero Ottomano si trovò in effetti a fare da cerniera tra l’Islam e la Cristianità: la maggior parte dei suoi domini erano islamici o islamizzati (come nel caso della Bosnia o dell’Albania), ma non poche regioni rimasero cristiane (come buona parte dei Balcani, o l’Armenia) o a forte presenza cristiana (come il Libano e la Palestina). Se si tiene presente l’incapacità dell’Islam a distinguere tra sfera religiosa e sfera politica, e la sua radicale intolleranza verso il Cristianesimo, si può avere una prima coordinata che inquadri la questione d’Oriente come una questione scottante e difficile. Ma vi è un secondo aspetto da tenere presente: il carattere non geograficamente ben definito dei confini dei vari popoli, l’intreccio talora inestricabile tra diverse etnie e culture non geograficamente delimitabili: si pensi ai casi particolarmente eclatanti della Bosnia, del Libano, della Palestina, di Cipro, della stessa Costantinopoli.

Si può in effetti notare uno strano paradosso, confrontando Europa occidentale e Europa orientale. Nella prima i confini dei popoli sono stagliati in modo abbastanza netto e storicamente piuttosto stabile[1]. Tuttavia in tali popoli si sviluppa un primato dell’individuo rispetto alla appartenenza etnica, una coscienza che la realtà più importante è l’individuo. Al contrario nell’Europa orientale (e a maggior ragione nell’area asiatica dell’Impero Ottomano) il senso di appartenenza nazionale è decisamente più spiccato rispetto al valore dell’individuo, e tuttavia i confini dei popoli non sono tracciati in modo chiaramente definito e stabile, si verificano intrecci e fenomeni di instabilità anche notevole[2]. Si può utilmente osservare che, se per molti popoli dell’Europa orientale l’assenza di confini ben marcati è dovuta soprattutto a cause geografiche, all’interno dell’Impero Ottomano è stata perseguita una coerente linea volta appunto a creare mescolanze etnico-religiose, stabilendo in particolare delle “teste-di-ponte” islamiche soprattutto nelle aree (geograficamente) più avanzate dell’Impero (come in Albania, Bosnia, a Creta e Cipro). Risulta evidente come tale politica, che potremmo chiamare di colonialismo religioso mirato, fosse funzionale al consolidamento della presenza ottomana, legata a doppio filo al fattore Islam. Quando però, nell’800 vennero sviluppandosi le aspirazioni all’indipendenza delle nazioni, l’intreccio fino allora favorito dalla Sublime Porta[3] si rivelò piuttosto fattore di instabilità.

A cavallo dunque tra un Islam e una Cristianità tra loro in irrimediabile scontro, alla testa di popoli sempre più pervasi da aspirazioni nazionali, l’Impero Ottomano si trovò a gestire un difficile declino, attorniato dalle potenze europee, vicine e meno vicine, attivamente interessate a che la sua dissoluzione non andasse a vantaggio dei rivali.

L’impero Ottomano

Quali erano stati ed erano i tratti essenziali dell’Impero Ottomano? Diciamo, in estrema sintesi, che gli Ottomani, popolazione di origine centroasiatica, stanziatasi in Anatolia tra la fine del medioevo e l’inizio dell’epoca moderna, convertiti all’Islam nella sua versione sunnita (la più diffusa), erano riusciti a porsi come i veri eredi del Califfato arabo, cioè della suprema autorità politico-religiosa mussulmana. Le varie entità politiche in cui era venuto frazionandosi il mondo arabo-islamico non erano infatti più in grado di esercitare alcun ruolo egemonico, e d’altra parte tale egemonia non poteva passare nelle mani della Persia, la cui fede sciita risultava inaccettabile alla schiacciante maggioranza dell’Islam. Perciò i Turchi Ottomani, di fede sunnita e militarmente inarrestabili, poterono facilmente ereditare una funzione di egemonia sull’Islam, per cui di fatto l’Imperatore Ottomano, il Sultano, assunse l’autorità di Califfo. Da notare che in una concezione  come quella mussulmana (priva del senso della distinzione tra politica e religione, e priva del senso della Croce, come condizione della Resurrezione) il successo militare ha da sempre rappresentato un inconfondibile segno di benedizione divina. E gli Ottomani vincevano. Conquistarono in breve tutto il vicino Oriente e l’Africa settentrionale, e, ciò che è più denso di valenze simboliche per l’Islam, strapparono ai cristiani Costantinopoli, la seconda Roma, il cuore della Cristianità orientale, per poi dilagare nell’Europa sudorientale, occupando saldamente per più di due secoli l’area balcanica, e spingendosi fin sotto le mura di Vienna. Sembrava la rivincita dell’Islam sulla Cristianità: scacciato dall’Europa occidentale ad opera degli spagnoli, l’Islam riprovava ad espugnare la fortezza degli infedeli dalla più cedevole frontiera d’oriente.

È importante allora notare come l’espansionismo ottomano non si presentasse semplicemente come il dominio di un popolo su altri popoli (secondo l’accezione più “tranquilla” di impero), ma si configurasse come lo strumento per acquisire all’Islam nuovi popoli, in vista di una islamizzazione globale dell’intera umanità. Gli Ottomani, eredi del Califfato, si sentivano investiti di una missione religiosa non meno che politica, senza che fosse possibile discernere chiaramente le due sfere.

Tuttavia non si può negare che vi fosse anche una certa componente di equilibrio del governo della Sublime Porta, e che una relativa tolleranza venisse garantita anche ai cristiani. In questo senso la diffusione di ideali nazionali, per il modo almeno con cui avvenne, ben presto corrompendosi in nazionalismo, può essere vista come negativa, a onta dei paesi europei (soprattutto Russia e Inghilterra) che la favorirono.

Precedenti prossimi.

La crisi dell’Impero Ottomano inizia a manifestarsi già alla fine del ‘700, ma un vero e proprio processo di disgregazione prende corpo solo nell’800. Ricordiamo solo alcune tappe salienti di tale, lento ma inarrestabile, processo.

1) La guerra di indipendenza della Grecia (1821/29) è un primo, duro colpo al prestigio e all’integrità dell’Impero. Con l’appoggio costante della Russia, grande protettrice dei cristiani ortodossi, e, da un certo punto in poi, dell’Inghilterra, sostenuti dall’opinione pubblica europea, i patrioti greci strappano alla Sublime Porta il riconoscimento dell’indipendenza. È in quella circostanza che si evidenziò anche quanto debole fosse l’autorità del Sultano sulla “periferia” del suo Impero: il pascià d’Egitto, Mohammad Alì, vi svolse una funzione militare di primo piano, dimostrandosi sostanzialmente autonomo da Costantinopoli.

2) Al seguito di tale crisi, che aveva evidenziato tra l’altro l’arretratezza dell’apparato politico, militare ed economico ottomano, inizia un periodo di riforme, il cosiddetto Tanzimat, che va dal 1826 al 1878; in questo periodo, nel contesto di una complessiva apertura alla cultura occidentale, viene sancita l’eguaglianza giuridica dei sudditi di ogni credo (con il cosiddetto firmano del 3/11/1839), vengono aperte scuole di tipo europeo, e inizia una stampa relativamente libera, finché nle 1876, al culmine di tale stagione riformistica, viene introdotto un parlamento bicamerale (alla Camera erano riservati 40 seggi su 116 ai cristiani) e vengono riconosciute importanti libertà politiche e civili.

3) Ma il Tanzimat venne interrotto allorché sembrò incapace di arginare la crisi dell’Impero, che era continuata con la conquista francese dell’Algeria nel 1830, ma soprattutto aveva conosciuto una brusca accelerazione con le rivolte dei popoli slavi nel 1876 e il Congresso di Berlino del 1878, che comportò una sensibile decurtazione dei territori Ottomani nei Balcani, col riconoscimento dell’indipendenza alla Serbia, alla Romania e alla Bulgaria.

4) Così il nuovo Sultano, Abdul Hamid, pensò che solo un ritorno al dispotismo avrebbe assicurato all’Impero una rinnovata saldezza. E in tale linea agì, premurandosi anche di fomentare con forza un ideale panislamico in funzione di coagulo antioccidentale dei popoli rimasti sotto la Sublime Porta[4]. Si trattava insomma di chiamare a raccolta tutti i mussulmani contro quell’Occidente cristiano che ormai appariva come una minaccia mortale, non solo, come era storicamente inoppugnabile, contro l’integrità dell’Impero Ottomano, ma anche, ciò che era interesse propagandistico di Costantinopoli  far credere, contro l’Islam in quanto tale.

5) Ma ormai fermenti disgregativi agivano potentemente all’interno della stessa componente islamica dell’Impero; in particolare si era diffuso, grazie anche agli occidentali, il nazionalismo arabo, fomentato soprattutto da arabo-cristiani libanesi[5]; significativa fu la penetrazione di idee moderne, favorita ad esempio dall’apertura di scuole cristiane in Libano, apprezzate dagli arabi in funzione anti-turca. Dunque al panislamismo ottomano gli arabi contrapponevano un panarabismo, ormai cosciente della diversità culturale, linguistica ed etnica della “nazione araba” rispetto ai Turchi, la cui funzione egemonica sull’Islam sunnita riceveva così un colpo mortale.

6) Sempre più ridotto territorialmente, con la perdita di ulteriori aree nei Balcani (con le “guerre balcaniche” del 1912 e 1913, che lasciavano alla Turchia solo la parte della Tracia che ancora oggi occupa) e nell’Africa settentrionale (la Tunisia, alla Francia nel 1881, l’Egitto, all’Inghilterra nel 1882, la Libia, all’Italia nel 1911), l’Impero Ottomano era percorso da spinte centrifughe anche all’interno di quanto gli era rimasto. Il colpo di grazia al cascante Impero viene dato con la prima guerra mondiale. Il primo trattato di pace che venne inflitto alla Turchia, alleata dei perdenti Imperi centrali, il trattato di Sèvres (1920) prevedeva pesanti amputazioni territoriali: la Turchia oltre a perdere tutti i territori arabi (Libano, Siria, Iraq, Palestina) si vedeva sottrarre parte della stessa Anatolia, ossia la zona di Smirne e Adrianopoli (data alla Grecia) e il territorio armeno, eretto a stato indipendente.

7) Fu grazie all’opera modernizzatrice di Kemal Atatürk che la Turchia riorganizzatasi anche militarmente potè migliorare sensibilmente le condizioni di pace col successivo trattato di Losanna (1923), che liquidava definitivamente le aspirazioni nazionali degli Armeni e costringeva i greci ad abbandonare l’Anatolia[6]. E siamo così alla Turchia quale la conosciamo oggi: uno stato laicizzato e occidentalizzato, dal secondo dopoguerra anzi alleato di ferro dell’Occidente.

 

Oltre al già accennato nazionalismo arabo, ci interessa ora focalizzare due “questioni” che la storiografia ufficiale tende a trascurare, come già abbiamo detto, ossia la questione armena e quella curda.

Il dramma degli armeni

Ci sembra giusto fare almeno un cenno alla questione armena, che si presenta come analoga a quella curda, ma di cui sono disponibili maggiori informazioni.

Il popolo armeno vanta una civiltà più che millenaria, saldamenta ancorata alla fede cristiana, vissuta in continua dialettica con le popolazioni circostanti, quasi tutte (eccetto la Georgia) mussulmane (turchi, curdi, circassi, azeri, iraniani).

Secondo lo storico Franco Falchi[7] la questione armena si acutizza bruscamente per un interessamento esterno (inglese e russo) alla fine dell’800. Prima gli armeni erano riconosciuti come “fedeli sudditi” della Sublime Porta. Sarebbero quindi stati i paesi occidentali (eccetto Germani e Austria) e la Russia a fomentare il sentimento nazionale degli armeno, ponendosi come loro protettori[8].

Ciò rende ancora più colpevole il comportamento degli stessi paesi occidentali allorché ciò che loro stessi avevano innescato si risolse in una tragedia per il popolo armeno. Prendendo infatti a pretesto l’appoggio di armeni alla Russia (nemica della Turchia) durante la prima guerra mondiale (in effetti molti si arruolarono nell’esercito dello Zar, e non solo nella parte russa dell’Armenia) i Turchi considerarono l’intero popolo armeno come “nemico interno” da eliminare[9]. Da 24 aprile 1915 i Turchi attuarono un piano di deportazione e di sterminio, che provocò la morte di almeno un milione di armeni, in parte fucilati, ma soprattutto fatti morire di fame e di stenti nel corso di deportazioni (in particolare verso il deserto sirano). Gli stessi tedeschi, alleati dei Turchi, riconobbero (sono parole dell’ambasciatore Wengenhein) che non si trattava di una mossa dettata “da sole considerazioni militari” e che “la Porta vuole approfittare della guerra mondiale per finirla radicalmente con i nemici interni (i cristiani armeni) senza subire pressioni diplomatiche dall’esterno”[10]. Dopo la soppressione dello stato armeno indipendente creato nel breve spazio tra il 1919 e il 1921, continuerà quello che è stato definito il “genocidio del silenzio”[11]. Ancora oggi, nonostante che dalla dissoluzione del’URSS sia nata una piccola repubblica armena indipendente, la maggior parte del popolo armeno è costretto alla diaspora, lontano dalle terre (ora turche) che sono state storicamente la culla della loro civiltà. Un po’ perché fisicamente eliminato (col “primo genocidio” della storia), un po’ perché costretto all’esilio, il popolo armeno non può rivendicare, come quello curdo, l’indipendenza della propria patria. Ma resta che tale popolo ha subito, compiacenti i governi occidentali, una grave ingiustizia storica.

I curdi

Della storia e della civiltà del popolo curdo non si hanno molte notizie. Si tratta di una etnia di ceppo indoeuropeo, più precisamente iranico[12], di religione sunnita (fattore diversificante rispetto agli sciiti confinanti: Iraq e Iran[13]), con venature misticheggianti: l’Islam curdo ammette fenomeni soprannaturali, rapportabili al concetto cristiano di miracolo, compiuti da santoni, ciò che invece è escluso dalla ortodossia mussulmana. È documentata l’esistenza di una lingua curda, sia pur di fatto differenziata in diversi dialetti. Demograficamente il popolo curdo non può essere oggetto di una stima esatta, ma sembra sia valutabile non sotto i 15 milioni di abitanti. Le attività economiche prevalenti sono ancora quelle di tipo primario, agricoltura e pastorizia. Dal punto di vista  politico i curdi ebbero dei sussulti di rivolta nazionale già nell’800[14]. In particolare puntarono le loro speranze su Kemal Atatürk, che si rivelò invece più intollerante dei Sultani, e li perseguitò più aspramente che mai. È in quel periodo, successivo alla prima guerra mondiale che si verificarono deportazioni di massa, fucilazioni, e una serie di misure volte a cancellare l’identità curda, come il divieto di parlare in curdo. Sempre da parte del governo turco si scatenarono feroci ondate persecutorie nel ‘25 e nel ’30. Va notato che i curdi, dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano si trovarono divisi dentro i confini di più stati: la Siria e l’Iran, e soprattutto la Turchia e l’Iraq. Pur senza subire un vero e proprio genocidio come gli armeni (puniti per la loro fede cristiana e per la loro civiltà “pericolosamente” evoluta), i curdi dovettero così affrontare una lotta per l’indipendenza in condizioni particolarmente difficili. Oltre alle divisioni imposte dall’esterno, un motivo di cronica debolezza degli indipendentisti curdi è stato ed è anche la loro divisione in fazioni, prive di un coordinamento unitario (tra cui i “democratici” del P.D.K. e i comunisti del P.K.K.). L’unico episodio in qualche modo vittorioso della lotta indipendentista è stato finora quello della “repubblica di Mahabad”, creata alla fine della seconda guerra mondiale col sostegno dei sovietici, che avevano occupato l’Iran occidentale, ma ben presto duramente repressa al loro ritiro[15]. Va detto peraltro che Iraq e Iran hanno comunque riconosciuto l’esistenza di un problema curdo, mentre la Turchia ha sempre negato tale problema ed è stata la più decisa a estirpare la cultura curda.

L’atteggiamento attuale della Turchia sul caso Ocalan rivela la persistente indisponibilità a negoziare una qualunque forma di autonomia per i curdi, la cui identità nazionale viene intrinsecamente negata.

Il perché di uno strano silenzio

Possiamo chiederci ora perché la storiografia e l’informazione occidentali abbiano trascurato e trascurino tali drammi. È banale quanto triste dover ammettere che che ciò avviene solo per un interesse politico. Prima della disgregazione dell’Impero Ottomano si trattava dell’interesse a non sfavorire troppo la Sublime Porta, perché non se ne avvantaggiasse troppo ora la Russia ora l’Austria. Dopo la prima guerra mondiale si trattava di non alienarsi l’amicizia di uno stato di vitale importanza strategica. La Turchia infatti controlla gli stretti (Bosforo e Dardanelli) che mettono in comunicazione marittima il Mar Nero (l’unico mare “caldo” su cui si affacci la Russia) con il Mediterraneo (e quindi con il resto dei mari). Inoltre essa è collocata a cerniera di Europa ed Asia, a ridosso di quell’area strategicamente importante, politicamente “calda” (soprattutto per la presenza dei “Luoghi Santi” e di Israele), ed economicamente vitale (per la presenza del petrolio) che è il Vicino Oriente. Ancora oggi, caduto il comunismo, l’importanza strategica della Turchia permane elevata, anche perché, a parte Israele, e dopo la caduta dello Shah, essa resta l’unico stato dell’area a costituire un alleato inossidabile.

Bisogna dire infatti che la Turchia, nell’Alleanza Atlantica da lunga data, ha sempre ricambiato molto generosamente, con una fedeltà granitica, tale trattamento di favore, rivelandosi un partner decisamente affidabile per l’Occidente. Si pensi solo alla notevole, illimitata, disponibilità turca nel lasciar usare le proprie basi aeronautiche per le missioni americane contro l’Iraq. Dunque, l’Occidente ha bisogno della Turchia, e la Turchia sa come farsi ricambiare. Perciò si preferisce tacere sui drammi, anche atroci, che hanno coinvolto e coinvolgono milioni di uomini.

Con ciò non si vuol negare che sia funzionale alla stabilità dell’area vicino-orientale mantenere legami di amicizia con la Turchia. Il che però non dovrebbe andare a scapito di una politica di giustizia e di fratellanza tra i popoli, che senza esarbare i nazionalismi, riconosca le diverse identità culturali e trovi le forme giuste per dare loro una dignitosa espressione.

conclusioni

1. L’idea di convivenza multiculturale, per quanto sostenuta per motivi spuri da parte dell’Impero Ottomano, non era priva di risvolti positivi (analogamente a quanto si può dire dell’Impero asburgico).

2. Prova ne sia la rottura di tale convivenza non è storicamente stata positiva: né in Palestina, né in Libano, né a Cipro, né nell’area armena, né in Bosnia.

3. In questo senso è da notarsi come negativa l’influenza di quei paesi occidentali, che prima hanno fomentato sentimenti nazionalistici, per poi abbandonare al loro destino i popoli “ingenuamente” insorti in nome di un ideale nazionale di fatto estraneo alla loro (più recente?) storia: è il caso degli Armeni, in parte della stessa Grecia (prima aizzata contro i Turchi, poi abbandonata); è il caso, più recente, dei curdi ribellatisi a Saddam Hussein.

4. Vanno evitati due estremi: la pretesa imperialistica di soffocare le identità nazionali, e la pretesa nazionalistica, di dividere i popoli con barriere nette e insuperabili, innescando una spirale di rivendicazioni e di rancori di difficile soluzione. Occorre favorire un rispetto e un attaccamento alle proprie radici culturali, dentro un senso di comune, fraterna appartenenza all’umanità intera. Il che in qualche caso può richiedere soluzioni di compromesso.

note


[1]  Si pensi alla Spagna, al Portogallo, all’Inghilterra, ma in qualche modo anche alla stessa Francia, alla Svizzera, all’Olanda; la stessa Italia, pur divisa per più di un millennio, era riconoscibile entro un’area piuttosto ben delimitata, compresa tra le Alpi e il Mediterraneo, e similmente la Germania, pur senza avere dei confini così nettamente stagliati da fattori naturali, ha avuto una relativa stabilità di collocazione, certo, con fluttuazioni maggiori proprio sul versante orientale.

[2]  Si pensi ad esempio a quanto sono variati in epoca moderna i confini della Polonia o dell’Ungheria. Il paradosso è però probabilmente spiegabile, presso i popoli dell’Europa occidentale, proprio come tentativo di conservare il senso di una appartenenza (a cui si tiene molto di più che in Occidente) che la geografia e la politica metterebbero altrimenti continuamente a repentaglio.

[3]  Cioè dal governo del Sultano, dal governo di Costantinopoli.

[4]  Nuove Questioni di Storia contemporanea, Marzorati (d’ora in poi NQS), vol. II, 1476/8.

[5]  NQS, II, p. 1479.

[6]  Nel senso che non solo lo stato greco rinunciò alla sua sovranità sulle già citate zone costiere, ma circa un milione di greci dovettero emigrare verso la sponda occidentale dell’Egeo. In effetti l’indirizzo modernizzatore e occidentalizzante di Atatürk non significò per le minoranze etnico-culturali della Turchia una garanzia di rispetto. Al contrario per molti aspetti la dinastia ottomana dei tempi migliori si era dimostrata più tollerante.

[7]  NQS, V, p. 638/41.

[8]  In effetti nel trattato di Berlino (1878) costrinsero la Turchia a riconoscere il dovere di tutelare “i bisogni locali delle provincie abitate dagli armeni” (art. 61). Soprattutto Gladstone (dal 1880) agirà per rendere indipendente l’Armenia, nel quadro di una progettata “balcanizzazione” della parte asiatica dell’Impero Ottomano.

[9]  NQS, V, 642/4.

[10]  Ibi, p. 643/44.

[11]  Solo nel 1974 una commissione incaricata dall’ONU presenterà un rapporto  che parla esplicitamente di “un’ampia documentazione relativa al massacro degli armeni, che si può considerare il primo genocidio del XX secolo” (paragrafo 30), ma la Turchia riuscì a far cassare quelle espressioni, per evidenti motivi politici. Nel 1985 comunque la CEE porrà alla Turchia, come condizione per negoziare il suo ingresso in Europa, il riconoscimento del genocidio degli armeni (così ancora il 18/6/1987 Ankara viene invitata ad ammettere l’Olocausto degli armeni).

[12]  NQS, V, p. 670.

[13]  NQS, V, 670/1.

[14]  NQS, V, p.671.

[15]  Ibi, pp. 680/3